Raramente avevano un seguito penale i processi intentati per casi di evasione fiscale. In questa categoria rientravano le macellazioni fatte senza avere il permesso dal Subappaltatore del Sigillo della Carne, sia per uso domestico che per vendita, il commercio di vino o di olio, la produzione di pane senza debita licenza etc. Questa tolleranza era probabilmente imputabile alla consapevolezza dell'indigenza in cui molte famiglie versavano (anche gli Statuti accennano ad una "povertà, et miseria in detta Potesteria nata"). Per questo motivo anche nei rarissimi casi in cui si condannava ad una multa, questa veniva di norma cassata senza che fosse pagata. Ad esempio Niccolaio di Francesco Giorgi il 27 giugno 1730 fermato per aver ucciso e consumato una pecora senza licenza e condannato in tre scudi d'oro venne graziato. Il comportamento era simile anche in casi ben più compromettenti. Ad esempio i fratelli Antonio e Giovanni Macchia di Lavaiano furono sorpresi mentre
portavano sopra un barroccio tre pecore, e mezzo macellate, con stadera Pennata, e Giunchi con animo di venderle a più persone, senza avere veruna facoltà che sia nota alla corte [1]
oltre a 30 quattrini per la carne già venduta. Il Subappaltatore, pur essendo stato informato da un "amico segreto" che gli imputati non erano nuovi a gesti simili, si "accontentò" di vedere la carne sequestrata senza procedere oltre in giudizio.
Paradossalmente assai più duro era il trattamento per chi avesse ucciso dei piccioni; questo crimine veniva definito col nome di "colombicidio". Neanche i militi potevano commetterlo impudentemente, Giovanni di Giovanni Piero Giacchi descritto equestre il 15 febbraio 1731 fu inquisito perché si facesse lecito tirare una Archibusata à due Piccioni Vecchi, e terraioli, che erano sul tetto del Mulino di Gio. Dom. Talossi, de quali mortone uno, se lo portasse à Casa, e mangiasse [2]
venne condannato a pagare 150 lire ad alla galera a beneplacito. Una sentenza più rigida fu inflitta a Jacopo di Giuseppe Turrini anch'esso descritto, accusato di aver sparato ai piccioni in due occasioni nello stesso giorno uccidendone nove; per il crimine del colombicidio fu condannato alla galera a beneplacito e multato per 150 lire, per la detenzione del fucile in lire 100 ed alla perdita di questo "a sua giusta valuta". La sentenza in questo caso è stata aggravata dal possesso illecito di arma.
Approfondimento storico a cura di Diego Sassetti
[1] Archivio di Stato di Pisa, Vicariato di Lari, Filza n.938, p. 2r, quaderno delle sentenze.
[2] Archivio di Stato di Pisa, Vicariato di Lari, Filza n. 932, p. 13r, quaderno delle sentenze.