Si era portati a ricorrere alla violenza per varie ragioni, una di queste era il gioco. Il passatempo preferito dai toscani era il gioco delle "pallottole o ballottole", questi non era altro che l'attuale gioco delle bocce[1]. Nell'ambito della battaglia moralizzatrice contro il lusso avutasi in età leopoldina, rispetto agli altri giochi le pallottole ricevettero anche degli elogi; erano infatti contrapposte ai giochi di carte che normalmente si tenevano in osteria. Una certa accondiscendenza la possiamo scorgere nella stessa istituzione carceraria dove se non proprio incoraggiato, questo gioco almeno veniva tollerato. Ma anche dalle bocce potevano derivare degli scontri violenti (ad esempio, si ha notizia di un caso in cui, a seguito di un lancio sbagliato, si voleva costringere un altro a recuperare la pallottola e dall'alterco verbale si arrivò ad una colluttazione), o atteggiamenti che con bestemmie e parole immonde offendevano il comune senso del pudore della "gente civile che [aveva] delle fanciulle[2]". Altro gioco diffuso e più pericoloso era quello delle "ruzzole" o della "forma", si trattava di un tipico gioco invernale praticato da novembre fino a Carnevale. I giocatori dovevano lanciare il più lontano possibile una piccola ruota di legno appositamente concepita o una forma di formaggio, avvalendosi di uno spago piuttosto lungo detto "ruzzolante". Il ruzzolante, stretto nel pugno per un capo, era avvolto lungo la circonferenza della ruzzola, mentre questa veniva caricata sull'avambraccio. Presa poi una breve rincorsa, bisognava lanciare la ruzzola in alto, imprimendogli il moto rotatorio con il ruzzolante[3]. Perché le ruzzole si sciupassero il meno possibile, venivano rinforzate con una banda di ferro rendendole molto pericolose per i passanti ignari; per questo motivo alla fine del XVIII secolo divennero un gioco clandestino.
Carte e dadi però restavano i giochi più perseguitati per le somme che vi si mettevano in ballo. Vincenzio del già Andrea Magnani (un descritto) nel dicembre 1727 venne fermato perché in possesso di una spada con fodero sprovvisto di "puntale" e di "un mazzo di carte basse fiorentine di picche, e fiori, mattoni, e cuori in numero di quaranta". Assolto per il caso dell'arma, fu condannato per le carte in 200 scudi in oro. Il connubio fra il consumo del vino e la partita a carte pareva indissolubile, questo comportava una ferrea vigilanza sulle osterie, tanto più che le risse ed i ferimenti si verificavano di solito nelle bettole fra giocatori scaldati dal vino. Il 21 febbraio 1733 Filippo Ciangherotti figlio dell'oste di Cevoli venne inquisito assieme ad altri cinque uomini, tre descritti e due civili
tutti del Comune di Cevoli, perché il p.mo come figlio di Tom.o Ciangherotti Oste Pubblico della d.a Comunità, preso l'opportunità del tempo, che non vi fusse suo Padre apprestasse, e dasse comodo a tutti gl'altri Coinquisiti in d.a sua Osteria, Tavola, Stanza, Candelieri, e Dadi per giocare con essi al gioco detto di sette a mazza, conforme fece la notte del dì 21 Feb. 1733 ab. Inc.ne et in tal modo tenesse bisca, e gioco in d.a sua Osteria, con esigere da i med.mi per tal Comodo un quattrino per ciascheduno, e tal cosa permettesse anco a i med.mi a riserva del 5.o Inq.to, nel presente mese di Feb.sotto suo vero g.no; e notte di giocare a Dadi in simil'forma con la sud.a esigenza, il tt.o fatto, e Commesso respettivamente Cont. le L.L., e B.B. di S.A.Re [4]
Uno solo dei giocatori viene arrestato gli altri riescono a fuggire.
Santi di Francesco Lupi, presente nell'osteria al momento dell'irruzione dei famigli, viene interrogato come testimone informato sui fatti. Il gioco incriminato è il "sette a mazza", il Lupi lo descrive
prendevano i dadi in mano con mano serrata, quelli che ballottavano, e li tiravano sopra alla Tavola, facevano l'invito, e mettevano sù il Denaro, che giocavano d'un quattrino, a di due [...]. Tiravano i Dadi, se facevano con i dadi sette, quello vinceva, se faceva altro numero, bisogniava, che lo rifacesse, e se faceva sette perdeva, e si chiama il gioco a mazza [5]
Lo stesso fa Francesco di Tommaso Feltrami, altro presente:
avevano due Dadi, con i numeri per tt.e le Parti, e dicevano che giocavano a mazza che tiravano i Dadi, pigliandoli in mano la serravano li ballottavano, e poi li tiravano sulla Tavola vedevano, che numero, avevano fatto, e dicevano un'd'una crazia, d'un quattrino, di due, di 3, 2.do chi giocava, e quando aveva perso uno pigliava i Dadi l'altro, e così seguitavano frà do loro [6]
I dadi e le poste vennero sequestrati e mostrati ai testimoni perché potessero riconoscerli. La stessa procedura veniva usata per i sequestri di carte, queste venivano contate e legate insieme in un pezzo di carta sigillato con della cera. Il sequestro delle carte era indispensabile per controllare che non fossero truccate, il sigillo con ceralacca costituiva invece la garanzia per gli accusati (almeno in teoria) che le prove non fossero manipolate [7].
Approfondimento storico a cura di Diego Sassetti
Questo approfondimento storico è parte del lavoro di Tesi svolto da Diego Sassetti per confrontare come si applicava la giustizia verso i cittadini comuni e quelli membri delle Bande Granducali, i così detti "Descritti". Il lavoro è stato pubblicato nel volume "Lari e il suo Tribunale", edito da CLD libri
Note:
[1] Vi erano più modi di chiamarlo,ad esempio a Roma i giocatori erano i bocciari, a Firenze i pallottolai
[2] Archivio di Stato di Firenze, Camera e Auditore Fiscale, negozi di polizia. Filza n. 2739, p. 16
[3] A. Addobbati, La festa e il gioco nella Toscana del Settecento. In "Studi Pisani". Pisa, Edizioni Plus, 2002, p. 150
[4] Archivio di Stato di Pisa, Vicariato di Lari, Filza n.934, p.10r, quaderno delle inquisizioni
[5] Archivio di Stato di Pisa, Vicariato di Lari, Filza n.934, p.90v - r
[6] Archivio di Stato di Pisa, Vicariato di Lari, Filza n.934, p. 92r
[7] A. Addobbati, La festa e il gioco nella Toscana del Settecento. Cit, p.238